'Ndrangheta all'Università di Messina: in appello richiesti "sconti" di pena

unimedi Claudio Cordova - Prescrizioni e richieste di condanna mitigate rispetto alle pene inflitte circa tre anni fa dalla Corte d'Appello di Messina. Dopo l'accoglimento del ricorso presentato dagli avvocati difensori in Cassazione, il processo "Panta Rei", celebrato contro i presunti affiliati alla 'ndrangheta della Locride, è ritornato in appello, questa volta a Reggio Calabria, dove la Procura Generale, oggi, ha formulato le richieste di condanna.

Tre anni e dieci mesi sono stati richiesti per Fausto Arena, undici anni per Carmelo Ielo (in continuazione con altre condanne), sette anni e quattro mesi per Carmelo Laurendi, due anni e due mesi per Antonio Rosaci, dieci anni per Felice Stelitano, tre anni per Francesco Stelitano, due anni per Pietro Michelangelo Stelitano, undici anni per Giuseppe Strangio. Tutte richieste di pena inferiori alle condanne annullate dalla Cassazione, ad eccezione di quella nei confronti di Alessandro Rosaniti, per cui è stata richiesta la conferma degli undici anni disposti dalla Corte d'Appello di Messina. Per gran parte degli imputati, invece, la Procura Generale ha chiesto che il Collegio riconosca l'intervenuta prescrizione dei reati. I beneficiari sarebbero Domenico Attinà, Francesco Corso, Michele Crea, Giuseppe Longo, Antonio Rosaci, Domenico Salvatore Rosaniti, Pietro Bonaventura Zavettieri. Reato estinto per Francesco De Maria, condannato in appello a undici anni, ma nel frattempo deceduto.

Il blitz della Squadra Mobile aveva provocato un vero e proprio terremoto all'interno dell'Università di Messina. L'operazione "Panta rei", infatti, era finita sulle prime pagine dei giornali, creando un'eco immensa anche a livello nazionale. A distanza di dodici anni, però, la Corte di Cassazione passò un colpo di spugna sull'indagine che aveva svelato le presunte infiltrazioni della 'ndrangheta all'interno dell'Ateneo messinese. La Suprema Corte, infatti, annullò con rinvio alla Corte d'Appello di Reggio Calabria il caso che, invece, era stato deciso, circa due anni e mezzo prima , dalla Corte d'Appello di Messina. La Corte di Cassazione, infatti, accolse i ricorsi presentati dal folto collegio difensivo (rappresentato, tra gli altri, dagli avvocati Maurizio Punturieri, Antonino Curatola, Umberto Abate e Pietro Modafferi), escludendo i reati più gravi, quelli associativi, quelli che, ancor più dei reati-fine, riguardanti, in particolare, alcuni episodi di violenza privata e di droga, costituivano il fulcro dell'inchiesta.

La Corte d'Appello di Reggio Calabria sarà adesso chiamata a rivedere la posizione della Corte d'Appello di Messina, che aveva parlato, nelle motivazioni della sentenza annullata dalla Cassazione, di "un'associazione di stampo mafioso all'interno dell'Università di Messina nel periodo che va dal 1984 al maggio 2001". Un'organizzazione che sarebbe stata ad appannaggio delle cosche della fascia ionica della provincia di Reggio Calabria, in particolare delle 'ndrine di Africo: nell'indagine, infatti, finì (uscendone successivamente) anche Giuseppe Pansera, genero del celebre boss Giuseppe Morabito, più noto come "Il Tiradritto", signore incontrastato della 'ndrangheta ionica, fino all'arresto, operato il 18 febbraio 2004, dal Ros dei Carabinieri, in quel tempo retto dal ColonnelloValerio Giardina.

Secondo le motivazioni della sentenza di secondo grado "scopo di tale associazione era quello di ottenere il superamento di esami e il conseguimento di titoli accademici mediante l'intimidazione e la connivenza dei professori, nonché quello di realizzare illeciti guadagni attraverso l'esercizio e il controllo di attività economiche, grazie all'inserimento di propri adepti negli organi amministrativi e decisionali dell'Università". Per dirla in poche parole: la 'ndrangheta di Africo aveva, di fatto, colonizzato l'Ateneo messinese, facendo il bello e il cattivo tempo e decidendo le sorti di importanti organi chiamati, ogni giorno, a dettare le linee dell'Università di Messina, invasa, negli anni, da un'ondata di studenti calabresi tra cui molti che, secondo la sentenza d'appello "non solo portarono all'interno dell'Università e delle istituzioni a questa collegate la mentalità e le regole di condotta tipiche degli ambienti d'origine (le famiglie mafiose, ndr), ma non disdegnarono di commettere veri e propri reati".